
di Francesca Albanese
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L’intervento di Francesca Albanese alla Conferenza di Bogotà sul genocidio a Gaza. Un appello ai paesi «con dei principi» a sanzionare l’economia israeliana e ad appoggiare l’autodeterminazione del popolo palestinese
Il 15 e 16 luglio, i delegati di trenta nazioni di tutto il mondo si sono riuniti a Bogotà, in Colombia, per una conferenza (convocata dal gruppo dell’Aja) volta a fermare il genocidio israeliano contro i palestinesi di Gaza, giunto ormai al ventunesimo mese. Nel suo discorso alla conferenza del 15 luglio, Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni unite per i Territori Palestinesi Occupati – sanzionata dall’amministrazione Trump la scorsa settimana in rappresaglia per le sue ferme posizioni filo-palestinesi – ha spiegato perché gli Stati debbano sospendere ogni legame con Israele. Ripubblichiamo qui il suo intervento integrale. La trascrizione è stata modificata per maggiore chiarezza.
ITerritori Palestinesi Occupati sono oggi un inferno. A Gaza, Israele ha smantellato persino l’ultima funzione delle Nazioni unite – gli aiuti umanitari – per affamare, sfollare continuamente o uccidere deliberatamente una popolazione ormai da eliminare. In Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, la pulizia etnica avanza attraverso assedi illegali, sfollamenti di massa, esecuzioni extragiudiziali, detenzioni arbitrarie e torture diffuse.
In tutte le aree sotto il dominio israeliano, i palestinesi vivono nel terrore dell’annientamento, trasmesso in tempo reale a un mondo che si limita a osservare. I pochissimi israeliani che si oppongono al genocidio, all’occupazione e all’apartheid – mentre la maggioranza esulta apertamente e ne chiede di più – ci ricordano che anche la liberazione israeliana è inscindibile dalla libertà palestinese.
Le atrocità degli ultimi ventuno mesi non sono un’aberrazione improvvisa; sono il culmine di decenni di politiche volte a sfollare e sostituire il popolo palestinese.
In questo contesto, è inconcepibile che i forum politici, da Bruxelles a New York, stiano ancora discutendo del riconoscimento dello Stato di Palestina, non perché non sia importante, ma perché per trentacinque anni gli Stati hanno tergiversato e rifiutato il riconoscimento, fingendo di «investire nell’Autorità nazionale palestinese», mentre abbandonavano il popolo palestinese alle implacabili e rapaci ambizioni territoriali e ai crimini indicibili di Israele.
Nel frattempo, il dibattito politico ha ridotto la Palestina a una crisi umanitaria da gestire in eterno, anziché a una questione politica che richiede una soluzione ferma e basata sui principi: porre fine all’occupazione permanente, all’apartheid e, oggi, al genocidio. E non è la legge ad aver fallito o vacillato: è la volontà politica ad aver abdicato.
Ma oggi stiamo anche assistendo a una frattura. L’immensa sofferenza della Palestina ha spalancato la possibilità di una trasformazione. Anche se questo non si riflette ancora pienamente nei programmi politici, è in atto una svolta rivoluzionaria che, se sostenuta, sarà ricordata come un momento in cui la storia ha cambiato rotta. Per questo sono venuta a questo incontro con la sensazione di trovarmi davanti a una svolta storica, sia a livello discorsivo che politico.
In primo luogo, la narrazione sta cambiando: si sta allontanando dal «diritto all’autodifesa» di Israele, invocato all’infinito, e si sta spostando verso il diritto all’autodeterminazione palestinese, a lungo negato – sistematicamente invisibilizzato, represso e delegittimato per decenni. La strumentalizzazione dell’antisemitismo applicata alle parole e alle narrazioni palestinesi, e l’uso disumanizzante della cornice del terrorismo per l’azione palestinese (dalla resistenza armata all’operato delle Ong che perseguono la giustizia sulla scena internazionale), hanno portato a una paralisi politica globale intenzionale. Bisogna porvi rimedio. Il momento è adesso.
In secondo luogo, e di conseguenza, stiamo assistendo all’ascesa di un nuovo multilateralismo: basato su principi, coraggioso, sempre più guidato dalla maggioranza globale. Mi addolora che non abbia ancora potuto includere in modo deciso i paesi europei. Da europea, infatti, temo il simbolo che questa regione e le sue istituzioni sono diventate per molti: un sodalizio di Stati che predicano il diritto internazionale ma sono guidati più da una mentalità coloniale che da principi, che agiscono come vassalli dell’impero statunitense, il quale invece ci trascina da una guerra all’altra, da una miseria all’altra – e, nel caso della Palestina, dal silenzio alla complicità.
Tuttavia, la presenza dei paesi europei a questo incontro dimostra che un percorso diverso è possibile. A loro dico: il Gruppo dell’Aja ha il potenziale per segnalare non solo una coalizione, ma un nuovo centro morale nella politica mondiale. Per favore, unitevi a loro. Milioni di persone stanno aspettando – sperando – in una leadership che possa dare vita a un nuovo ordine globale radicato nella giustizia, nell’umanità e nella liberazione collettiva. Non si tratta solo della Palestina. Si tratta di tutti noi.
Gli Stati che possiedono dei principi devono essere all’altezza di questo momento. Non c’è bisogno di un’appartenenza politica, un colore, bandiere di partito o ideologie: devono essere sostenuti dai valori umani fondamentali. Quelli che Israele sta schiacciando senza pietà da ventuno mesi.
Nel frattempo, plaudo alla convocazione di questa conferenza di emergenza a Bogotà per affrontare l’incessante devastazione a Gaza. È quindi su questo che bisogna concentrare l’attenzione. Le misure adottate a gennaio dal Gruppo dell’Aja sono state simbolicamente potenti. Sono state il segnale del necessario cambiamento di rotta, sia politico che discorsivo.
Ma rappresentano il minimo indispensabile. Vi imploro di ampliare il vostro impegno e di tradurlo in azioni concrete, a livello legislativo e giudiziario in ciascuna delle vostre giurisdizioni, e di considerare prima di tutto cosa dobbiamo fare per fermare l’attacco genocida. Per i palestinesi, soprattutto quelli di Gaza, questa domanda è esistenziale. Ma è davvero applicabile all’umanità di tutti noi.
In questo contesto, la mia responsabilità è quella di consigliarvi, senza compromessi e spassionatamente, la cura per la causa principale. Non possiamo più limitarci ad affrontare solo i sintomi, cosa che rappresenta per molti la zona di comfort. E le mie parole dimostreranno che ciò che il Gruppo dell’Aja si è impegnato a fare e sta valutando di consolidare è solo un piccolo impegno verso ciò che è giusto e dovuto, basato sui vostri obblighi ai sensi del diritto internazionale – obblighi, non compassione, non beneficenza.
Ogni Stato [deve] immediatamente rivedere e sospendere tutti i legami con Israele: le sue relazioni militari, strategiche, politiche, diplomatiche ed economiche – sia in termini di importazioni che di esportazioni – e assicurarsi che il suo settore privato, le compagnie assicurative, le banche, i fondi pensione, le università e gli altri fornitori di beni e servizi nelle catene di approvvigionamento facciano lo stesso. Trattare l’occupazione come se fosse un’attività ordinaria si traduce nel sostenere o fornire aiuti o assistenza alla presenza illegale di Israele nei Territori palestinesi occupati. Questi legami devono essere interrotti con urgenza.
Sia chiaro: quello che intendo è tagliare i legami con Israele nel suo complesso. Tagliarli solo con le sue «componenti» nei Territori palestinesi occupati non è un’opzione sufficiente.
Ciò è in linea con l’obbligo imposto a tutti gli Stati dal parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia del luglio 2024, che ha confermato l’illegalità della prolungata occupazione israeliana, dichiarandola equivalente alla segregazione razziale e all’apartheid. L’Assemblea generale delle Nazioni unite ha adottato tale parere. Queste conclusioni sono più che sufficienti per intervenire.
Inoltre, è lo Stato di Israele a essere accusato di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio, quindi è lo Stato che deve essere ritenuto responsabile dei propri illeciti. Come ho sostenuto nel mio ultimo rapporto al Consiglio per i Diritti Umani, l’economia israeliana è strutturata per sostenere l’occupazione e ora è diventata genocida. È impossibile districare le politiche e l’economia statale di Israele dalle sue politiche e dalla sua economia di occupazione di lunga data.
In realtà è inseparabile ormai da decenni. Più a lungo gli Stati e gli altri rimangono coinvolti, più questa illegalità, al suo interno, viene legittimata. Questo vuol dire complicità. L’economia è diventata genocida e quindi non esiste un Israele «buono» e un Israele «cattivo».
Vi chiedo di immaginare come se fossimo qui riuniti negli anni Novanta, a discutere del caso dell’apartheid in Sudafrica. Avreste proposto sanzioni selettive contro il Sudafrica per la sua condotta nei singoli bantustan? O avreste riconosciuto il sistema penale dello Stato nel suo complesso? Oggi, quello che sta facendo Israele è peggio. Questo confronto è una valutazione giuridica e fattuale supportata da procedimenti legali internazionali di cui molti in quest’aula hanno avuto parte.
Ecco cosa significano le misure concrete. Negoziare con Israele su come gestire ciò che resta di Gaza e della Cisgiordania, a Bruxelles o altrove, è un disonore assoluto al diritto internazionale.
E ai palestinesi e a tutti coloro che da ogni angolo del mondo sono al loro fianco, spesso a caro prezzo e con grandi sacrifici, dico che, qualunque cosa accada, la Palestina avrà scritto una pagina tumultuosa: non come se fosse una nota a margine nelle cronache degli aspiranti conquistatori, ma come l’ultimo verso di una secolare saga di popoli ribellatisi all’ingiustizia, al colonialismo e, oggi più che mai, alla tirannia neoliberista.
*Francesca Albanese è ricercatrice associata presso l’Institute for the Study of International Migration della Georgetown University e relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967.